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Identità e alterità dell’autore: la storia che scrive se stessa

Gentili lettori,
nel ringraziarVi per la squisita attenzione accordata alla rubrica PsychoLand, desidero dedicare a Voi la storia di questo numero; in particolare, a tutti Voi che respirate l’aria bella di Sicilia, quella stessa inconfondibile aria da me caparbiamente incamerata e custodita dentro questi polmoni, allorquando, per giorni, dalla mia terra mi trovo lontano.
Sebbene da oltre dieci anni io trascorra gran parte del tempo a Roma per lavoro, tutte le mie visioni nascono in Sicilia. Ma come nasce, in sintesi, una storia? È innegabile che lo scrittore possa trarre spunto dall’osservazione del resto da sé; d’altro canto, è pur vero che un fatto (una parola) passerebbe inosservato se chi ne è investito non ne fosse affamato. Ed è così che quel fatto, seppur generativo del soggetto (si deve quindi ad esso parte della paternità della storia), diviene strumentale al soggetto letterario. Quanto precede è perfettamente giustificabile: basti considerare che anche quando la storia sia biografica (o, addirittura, autobiografica), la forza impulsiva dell’esperienza la cui osservazione stimola all’autore un racconto ed intorno a cui si sviluppa l’intreccio, per gradi si trasfonde – mano a mano che la penna scrive – nel soggetto letterario stesso, nel personaggio, nella stessa storia. Parallelamente, quindi, l’entità reale autore da cui quell’urgenza di dire ha tratto spunto, si svuota inevitabilmente di soggettività, cedendo il posto al personaggio, che pian piano acquista autonomia.
Ecco dunque nascere un’inebriante condizione di alterità cui lo scrittore non può sottrarsi, in ciò risiedendo la chiave della composizione d’istinto: la sensibilità che permette di non irrigidirsi nella formula letteraria e di non ostacolare, conseguentemente, il venire al mondo del soggetto letterario, con l’autonomia di cui esso è esclusivo portatore e della quale l’autore è, quindi, solo in parte diretto responsabile.
In che percentuale è imputabile al pittore l’effetto finale di una pennellata? E al musicista un arpeggio? Un’opera pittorica, una composizione musicale così come un oggetto letterario, sono in certa misura assimilabili ai sistemi autopoietici di Maturana e Varela: l’oggetto letterario è sistematicamente organizzato come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) di componenti; queste componenti, a loro volta, attraverso le loro interazioni e trasformazioni rigenerano continuamente la rete di processi che le ha prodotte. Non solo, ma tali componenti costituiscono quella rete di processi come una unità concreta nello spazio: ecco alfine la storia. E poco importa che l’autore riesca a venderne un milione di copie. È comunque la sua storia.
La visione che oggi Vi dedico, L’Inganno di Becky, avuta in Sicilia e di Sicilia piena fino all’orlo, è nata proprio così.
Buona lettura.

Nel marzo del 1970 Nino Becky, maestro elementare, individuò un fenomeno che ancora oggi non trova spiegazione.
Durante una scampagnata didattica alle pendici del Monte Soro, giunta che fu la scolaresca alla foce dell’Inganno, mentre illustrava ai suoi alunni in quanti modi un corso d’acqua può gettarsi in mare, l’insegnante fu attratto dal singolare comportamento di uno tra i tanti rivoletti: l’acqua che abbandonava il letto del torrente per dividersi fra gli innumerevoli rami del delta, una volta imboccato lo strano rigagnolo non entrava nel mare. Viceversa, il maestro Becky notò come l’acqua se ne tornasse indietro, risalendo contro corrente, fino all’alveo principale. Si invocò il prodigio e fu così che in un paio di giorni la notizia del rivo perverso fece il giro del mondo e dovunque si seppe della foce miracolosa dell’Inganno.
Sorte inaudita e che celebrità per Acquedolci e Sant’Agata Militello, due paeselli sulle sponde opposte del vallone, se non altro perché da ogni dove pellegrinaggi di studio e di contemplazione, le troupe televisive, l’interminabile andirivieni dei giornalisti dall’Italia e dall’estero e perciò inevitabilmente l’eldorado. E se tutto ciò stava realmente accadendo, se ora perfino il poveraccio portava scarpe da pascià, era solo merito di Nino Becky, il maestro di scuola elementare: era lui il padre della nuova prosperità. Un’intervista al giorno divenne il minimo ingaggio ed in un battibaleno due strade col suo nome, una a Sant’Agata e l’altra al vecchio borgo di Acquedolci.
Quando arrivò il dicembre del 1970, ancora perfettamente intatto l’entusiasmo del mondo che alla vista del torrente sbalordiva come il primo giorno, intervistato da un network americano Nino Becky, alla domanda perché l’acqua del rigagnolo non si riversasse nel mare, sparò l’affascinante congettura che non fosse l’acqua del rivoletto a rifiutarsi di sboccare nel Tirreno, ma che fosse piuttosto il mare a non volerlo unire a sé. Fu una cannonata. Chi non ricorda le conseguenze di quell’affermazione? La spianata del delta dell’Inganno fu convertita in un laboratorio a cielo aperto, dove scienziati provenienti da tutte le nazioni occuparono l’area per intero, brulicanti e determinatissimi a risolvere il caso Becky. Come non averci pensato prima, che occorreva dare una risposta? Eccelse intelligenze ben pagate, pagate più che bene, per mesi erano rimaste accampate attorno a uno scolo della Sicilia settentrionale soltanto per scattare foto ricordo? L’uomo sulla Luna, l’intervento a cuore aperto più altre innumerevoli amenità di cui andar certamente fieri e per l’Inganno, un fiumiciattolo non diverso da tanti altri se non fosse stato per, per l’Inganno nessuna reazione convincente?
Fra i molti esperimenti infruttuosi e più o meno deludenti, un paio addirittura ridicoli, finalmente risolutivo fu quello escogitato da un luminare francese, il quale pensò bene di versare una sostanza colorante a monte del rigagnolo: la brillante intuizione avrebbe consentito di analizzare il comportamento dell’acqua in prossimità del punto interessato. Il 6 dicembre 1970, davanti a miliardi di occhi spalancati in mondovisione, un’enorme cisterna di liquido colorato fu svuotata nel torrente, un chilometro a monte della foce. O la va o la spacca. L’acqua evidenziata scese a valle, come nulla fosse, come normalissima acqua che segue il proprio corso naturale anche se, certo a causa del momento sensazionale, a tratti pareva addirittura che scorresse più lentamente. Incollati allo schermo bimbi adulti e vecchi di tutte le forme e dimensioni, a seguire con la testa, per lunghissimi momenti, il percorso di quel liquido in cui adesso il mondo intero aveva riposto le proprie più intime speranze, fino a che, all’innesto del rivolo di Becky, il tratto colorato si sparpagliò imboccando i diversi rami della foce. Con gran rumore di pale gli elicotteri della televisione si ammassarono a perpendicolo sul piccolo rio, intanto che a terra gli operatori galoppavano e facevano a spallate e sgambetti per vincere l’inquadratura migliore, più vicino possibile alle transenne. Il momento era storico. Rintanato nella sua tenda da campo, lo scienziato inventore del test pensava al Nobel sbranandosi le unghie. I due maggiori Presidenti lievitavano davanti alle telecamere di Stato, sotto a quintali di cipria. Al numero 1 di via dell’Arco nasceva un bambino di quattro chili otto e cinquanta e quando dal piano di sotto gridarono al padre di fare presto, di correre che in televisione stavano facendo vedere come andava a finire, Nino Becky accarezzò la testa pelata di suo figlio e pensò « sinceramente, mi nni futtu ».

“La storia che scrive se stessa”