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Tra canzone e letteratura, il disagio mentale sul numero di marzo di Omnibus

Gentili lettori,
sulla scorta dei recenti fatti di costume che – in forma più eclatante rispetto ad altri e forse più seri contesti ambientali – hanno riguardato la platea sanremese dell’Ariston, la tematica che ho scelto per la redazione di questo mio primo intervento su Omnibus è il disagio mentale. Dal palco eminentemente strategico, un’orecchiabile (e, devo dire, bella) poesia musica la vita fuori sincrono del “malato di mente” ed ecco che, da più parti, ad un contesto tanto delicato quanto – inutile negarlo – socialmente scomodo sembra per incanto accordata rinnovata attenzione.
Dal canto mio, già nel 2006 ho affrontato il tema della malattia mentale allorquando ho curato l’introduzione critica al libro L’analista analizzato della Dott.ssa Maria Amato, giudice onorario presso il Tribunale di Patti.
Ha conosciuto il mondo psichiatrico dei dipartimenti di salute mentale dal di dentro, la Amato, imbattendosi in mostruose ideologie e scenari degradanti. Nella sua indagine durata anni, Maria Amato ha dunque combattuto e si è duramente ribellata, fino a che il sistema – divenuta ormai la donna una “malata” – le ha riconosciuto una gravissima patologia: quella del dissenso.
Con l’auspicio che tanto possa essere utile quale spunto di ulteriore riflessione, concludo questo intervento proponendoVi la mia introduzione a L’analista analizzato, la cui uscita in libreria è prevista già per i primi giorni del mese di aprile 2007.

« Ho conosciuto Maria Amato una sera siciliana d’agosto: il tempo maturo tra le mani (occhi mi dissero un’urgenza) e una storia difficile, a lungo custodita, che adesso bisognava raccontare. Quella comune fretta di dire mi suggerì di concordare con la scrittrice che avrei letto le sue parole e così ho fatto, di lì a poco. Ebbene, la cautela dell’inizio non ha eluso il processo d’immedesimazione che l’approccio con L’analista inevitabilmente comporta, né ha consentito alla mia coscienza di sottrarsi alla domanda: la psichiatria è scienza? L’eco spiraliforme dell’interrogativo tormenta l’intelletto della protagonista (nella cui assenza di nome leggo la valenza di moltitudine di anime che sono esistite, esistono), l’accompagna fuori di casa al mattino e lungo i corridoi degli ospedali – canali d’imbuto e budelli – si deposita nei gabinetti delle istituzioni e ammorbandone poltrone soffitti e pareti detona dalla prima all’ultima pagina del libro, coinvolgendo, nell’intimo, il nostro pensare civile.
L’esperienza che il personaggio vive in qualità di pseudo-paziente delle istituzioni psichiatriche – vicenda drammaticamente singolare pur nella sua sconcertante ordinarietà, laddove è abbondantemente dimostrato come determinate terapie psico-farmacologiche possano produrre seri danni alla salute mentale – si sviluppa nell’alveo di un disadattamento sociale profondo e reale, nel disagio di chi, per sensibilità o intelletto in contrappunto col resto, diversamente da quel resto sente la propria esistenza («…riscriviamo la vita! La mia io la rifarei bellissima»). Eppure, ella giammai è relegata al ruolo di vittima di quella psichiatria, ben cosciente del fatto che, se categorizzata quale schizofrenica, soccomberebbe sotto la soma della nota e impietosa etichetta moralistica la cui lettura – inutile negarlo – condiziona in modo permanente la percezione che gli altri hanno del “malato”.
Già Thomas Stephen Szasz, professore di psichiatria emerito presso lo Health Science Center, State University di Syracuse, New York, criticando i fondamenti morali e scientifici della psichiatria, parla di mito della malattia mentale. La schizofrenia è il “simbolo sacro della psichiatria” ed i soggetti con malattie mentali hanno una “malattia falsa”: per essere una vera malattia, l'entità dovrebbe essere verificabile in modo scientifico. La psichiatria sarebbe quindi una pseudoscienza che parodizza la medicina. Per essere chiari, un cuore infranto e un attacco di cuore appartengono a due categorie completamente diverse.
D’altro canto, in Contro la terapia Jeffrey Moussaieff Masson ragiona sulla pericolosità di tutte le psicoterapie, da quelle classiche alle terapie femministe e Gestalt, chiarendo come la psicoterapia sia stata creata per imporre il punto di vista del terapista, giammai per alleviare le sofferenze del paziente («le mie realtà, dottore… o le sue interpretazioni della mia vita?»).
Tra romanticismo e denuncia sociale, indagine sul campo e autobiografismo, la scrittrice carica il suo personaggio di una eroicità solenne ma semplice, un essere che lotta per sostenere il proprio delicato equilibrio tra vertiginosi acrobatismi, urla il proprio diritto di soddisfare i bisogni più sani ed autentici, mentre un demone macchinoso sembra suggerirle la rassegnazione al ruolo della fallen woman: ecco alfine una donna che deve fare i conti con la ferocia della convenzione, deve lottare per vivere.
La realtà della protagonista è satura di forze diverse ed apparentemente antitetiche: tali sono gli impulsi sofisticati e le necessità elementari che la tormentano, ne fortificano lo spirito al tempo stesso, trasfigurandola in un’icona superba del libero arbitrio («la libertà di pensiero è sempre esistita, anche quando è stata negata»). L’universo narrativo de L’analista è costellato di evidenti antinomie: ricorrente è lo strumento del contrasto, rinvenibile tanto nella caratterizzazione formale dei personaggi (l’esilità di certe figure suggerisce la libera associazione ai diafani interpreti di alcune tra le più recenti opere cinematografiche di Tim Burton, in forte contrapposizione al giunonico Botero style della protagonista; l’in-out del gusto-disgusto nei ricorrenti episodi bulimici, laddove il bisogno impulsivo di assumere quantità spropositate di cibo trova la sua sublimazione nella corsa in bagno «a scaricare il tutto dentro il water di lusso»), quanto nell’impalcatura stilistica dell’intreccio (al patetico è opposto il grottesco, il cinico addirittura annullato dal denso umorismo del mezzo verbale).
Ma se il dispositivo narrativo de L’analista spesso si traduce in un efficace divertissement, il dileggio è di stile e non dissimula un rapporto gioioso di Maria Amato con l’atto dello scrivere, giammai con il contenuto: viceversa, l’autrice ben sa di dire cose importanti, sente il rapporto di responsabilità che la lega alle sue parole.
Alla cadenza dello stravagante leitmotiv gastronomico che percorre l’intreccio e insaporisce il soggetto letterario, tutto lo scritto si sviluppa tra le sponde contrapposte di spirito e materia, entro le quali è la sintesi della posizione cosciente della scrittrice: la psichiatria è pseudoscienza.
E allora, se davvero la psicoterapia non sempre è la soluzione, un amico leale, forse... »

“Un amico leale, forse...”