Antonio Valenti

Sarò breve, perché questo non è un racconto. È d’uopo esser brevi viepiù che questo è un resoconto, un resoconto elettorale.

Dedicato a Dino Buzzati.

Lo Shinkansen Majorana è una macchina assoluta e ribelle.

Mi dai meno di quanto daresti a tuo padre, se ti fossi padre: ma io non ti sono padre.

Dietro la finestra attraverso la quale, da bambina, aveva lungamente abbandonato interminabili sguardi al cielo alpino, seduta sull’homemade stool, come chiamava lo sgabello costruito dal nonno, sfottendolo, Heidi si guardò le dita intrufolarsi nella lana bianca della sua capretta.

Kosher non era neppure nato quando Kruger costruì il petadone. Eppure Kosher scoprì come smontarlo.

Cercherò di esprimermi con semplicità cosicché, nella pur remota ipotesi che un qualsivoglia dio ulteriore si trovi a girovagare per questo scellerato spazio, gli risulti quantomeno arduo, se non impossibile, decriptare, comprendendolo, il nostro comune infimo manifestarci, e dimodoché io, all’eventuale verificarsi di quella medesima remota possibilità, possa sottrarmi a un castigo esemplare e permanente.

Mentre il professor Mancuso sfilava il nastro al pacco con le mani smaniose di un bambino, come poteva immaginare che pezzo dopo pezzo avrebbe assemblato la propria fine?

Il perché durante le notti più infuocate, così come nel cuore di quelle oltremodo terrificanti quanto a densità di folgori e pandemonio di schianti, ancora oggi io sobbalzi nel letto, rorido di gelido sudore, tremante e col petto che sembra spaccarsi in un fitto tumulto di pazzesche convulsioni, voglia il cielo che io possa prima o poi dimenticare.

In extremis, in punto di mortorio, imploro la tua indulgenza per i miei innumerevoli sgarri e, sopra tutti, il non avere inteso per tempo quale prodigio si nascondesse in te, che sei il mio più sventurato orgoglio.

Amore mio dove sei? Dove sono io? Hai visto che successone, di là di fronte a Dio?

Non penso a decifrarti, perché mi è cara la tua somma incompresa. Né mi preme studiarti: oscura la mappa, superbo è il tesoro.

«A tutti quelli – dicevi – intenti a edificare alveari, stipare provviste per copulare con putride carni e pascere le larve; a tutti quelli – hai detto tu – che fuori da là non sanno» da che parte andare, voglio dedicare un mio libero pensiero, perché se non altro io possa sentirmi puro, e tersa e bianca come il giglio, di fronte al foglio, la mia coscienza.

Non sei tu il mio diverso verso – così come invero al mio primo verso, prosaico al tratto ma di romantico interno, ho forse scioccamente ritenuto, trattenuto io stesso dal vischio di quel medesimo verso che è da me lontano appena un pugno di giorni chiusi.

Maturo che fu il tempo di darsi una risposta, si preparò con lo scrupolo dell’archivista: slacciato l’orologio e sfilatisi gli anelli, si lavò una, due, dieci volte le mani e giunto nel suo studio, chiuse la porta e si sedette.

Scrivendo e riscrivendo di quel che c’è qua dentro, sin dalla prima frase, quel primissimo costrutto d’incompiuto senso che al momento non ricordo – bell’ancor di più perché mai lo ricorderò – quante volte sono ricorso all’immagine del pozzo – in assoluto il più profondo – così come dell’abisso più nero fra tutte le ferite verticali del mondo: buche, fossi, scarpate, spacche, spaccature e spacchi, diaclasi inimmaginabili ai più, seppellite sepolture fondissime, valloni impervi, inestimabili inferni.

Vorrei scoprirti nuda, sottratto alla tua pelle qualsivoglia orpello che sia pur soltanto d’aria, nient’altro che la pelle addosso alla tua carne.

Pochi istanti ancora e ti avrò raggiunta. Quanta fatica e quanto lungo, il cammino, prima di giungere qui, al tuo cospetto.

Ignoti l’uno all’altra in rapporto di vera uguaglianza, ma non anche abbastanza dissoluti da spogliarsi del turbamento che c’è all’approssimarsi della nudità di chi per davvero non si conosce, mano nella mano, due rampe di scale, sguardi alla porta dritti come frecce, un brivido e furono nella stanza.

Un giorno a metà tra ieri e domani, preciso e spaccato come il tratto fra due ali che però sono certo non si tratta d’oggi, seduto davanti al feretro di una vecchietta morta poco fa, la guardo e capisco che ti amo.

Trovo che l’avermi scritto, così come il neonato, ragionevole proposito di non scrivermi oltre, sia logica perifrasi del tuo rassomigliare ad una mosca effimera, una di quelle che volano soltanto una notte e poi muoiono di colpo, o ad una colata dal Puy de Dôme osservata da lontano.

Mentre inseguo un movimento che lambisca le parole e gli spazi pertinenti, accordando il mio risveglio al velluto di una danza, trovo un moto che trascina i miei pensieri nel groviglio di un roveto.

A chi non è successo di svegliarsi con una parola precisa che va e viene nella testa?

Sul letto che hai scondito a notte fonda, partito mentre ancora ti sognavo, mi siedo stamattina e guardo la mia gamba, fra il ginocchio e un angolo di stoffa chiaro quanto basta a concedermi il regalo, l’esercizio impegnativo: un graffietto sulla coscia.

Si accende il propulsore: l’onda pulsante me lo dice, lenta a poppa a sciabordare come fosse agonia.

Addolorato al pianto d’un nobiluomo impossibilitato a sposare le tre figlie perché caduto in miseria, il vecchio Nicola decise di lanciare per tre notti consecutive, attraverso una finestra del maniero, tre sacchetti pieni di monete che avrebbero costituito la dote delle fanciulle.

Oggi mentre tutti – te compresa – avete il cuore stretto, ecco le ragioni che fanno del mio petto una pergola spontanea, libellula leggera e vivace, una porta innanzi al mare.

Rovente. Un lievito in cottura lentissima sopra a un sedile in penultima fila.

Nel marzo del 1970 Nino Becky, maestro elementare, individuò un fenomeno che ancora oggi non trova spiegazione.

Mio padre era un uomo terribile, ma la cosa più curiosa è che non è stato sempre così.

Per la milionesima sera, stasera io parto. Una volta ancora mi allontano dalla tua forma carnale, per giungere a te, amore, che ineluttabilmente chilometrico sei.

Come fosse morta, quella disgraziata. Questo conviene pensare: si è ammalata, è morta e io non l’ho saputo.

Domina il mio sguardo una pietra, sasso comunissima materia che è e basta, col colore determinato che ha un sasso, che è il colore della pietra: quale altro colore potrebbe avere una pietra che poi semplicemente pietra è?

Non si lamenta più, ma guida e basta.

«Solo. Immemore. Cortometraggio di te stesso. Sintassi asfissiata. Perché sei tu?»

Rovinosamente, Meteora, quella notte io e te precipitammo sul pianeta disabitato, su emisferi opposti.

Alto altissimo, usurario il tasso che quotidianamente verso nelle casse dell’incanto. In termini di rapace schizofrenico appollaiato sullo stomaco, intendo.

Era appena cominciata la primavera quando ebbero inizio le grandi manovre.

Sei pronta per il nostro appuntamento?

Stasera mi decido finalmente a scrivervi dopo lunghe titubanze, Sir Joe, poiché sarebbe delittuosa ogni ulteriore finzione.

Signore e signori, mi dispiace per voi, ma stasera succede che piano piano da me esco e pieno pieno di me dico: andate a farvi fottere.

Giuseppe Maria Messina, 46 anni, è scomparso.

La mattina d’un 13 di marzo, di ritorno da una lunga nottata di scavi, Michele Chillemi vide un angolo di carta bianca sporgere dalla cassetta per la posta.

«Psss… sei sveglia?»

Ora conosco la causa del turbamento che da mesi ti sottrae alla normalità.

Il pensiero che s’inarca, trascendendo la linearità, è il pensar che m’appartiene: il mio pensare naturale, contro la presunzione universale che vorrebbe non contorta l’idea pura.

Un’immensa clessidra adagiata sull’Oceano Indiano sovrasta il mondo, e innalzandosi fino a graffiare la galassia più distante, governa il tempo.

Nel prosieguo d’una perturbazione mentale, muta la scena con affinità d’intenti.

Magdalena? La complice inconsapevole di soluzioni potenziali.

Vi sono accadimenti ben localizzati nella vita dei popoli, che con la loro forza esercitano potestà sulla concatenazione dei movimenti dell’universo: così esiste la Storia e si trasforma, e rapportandosi proprio a tali fatti, resta.

Dall’essere altrove, altrove dal tempo.

Stop