Pannone
A chi non è capitato di svegliarsi con una parola precisa che viene e va nella testa? Mio padre, per esempio, ricorda ancora quando dal sonno del mattino acerbo lungamente si trascinò dietro il lemma dell’infarto, più che altro il ricordo del suo ultraventennale sfregio; fatto sta che sbigottì e con lui mia madre, nel letto, tutti e due sudati, tanto quella parola era parsa vera ancora.
Maria, mia moglie, mi svegliò una mattina: volle sapere quando e come avessi conosciuto Luiza, se l’avessi amata e desiderata per davvero così tanto; come si chiamasse veramente e dove fosse il figlio misterioso che quella bellissima donna mi aveva innegabilmente dato.
Potrei continuare, ma quel che adesso importa non è discutere della casistica sociale. Io desidero piuttosto raccomandare la massima prudenza a chi si sveglia con una parola vorticante nella testa.
Prima di dar voce all’eredità lasciata dalla notte, caldamente suggerisco qualche istante di pazienza. Diversamente, per la fretta di dire si potrebbe inciampare, come una mattina io stesso ho rovinosamente inciampato, ferirsi addirittura – io mi sono gravemente ferito. Dicendo si può rischiare, come ho personalmente rischiato. E molto di più ancora. Dicendo si può fallire.
Insomma quella mattina, quando ebbi aperto gli occhi – grazie a Dio – dopo una mia notte comune e media, forse solo un poco disturbata, sulla punta della lingua ci avevo un suono semplice ma strano, una parola che non si è subitamente legata a un ricordo neppure vagamente suggerito.
La parola era pannone.
L’ho detta a Maria e lei, forse perché appena sveglia, è andata su tutte le furie: borbottando ha preparato un solo caffè, si è barricata in bagno muta, noncurante del mio importantissimo appuntamento. Non solo sono dovuto uscire senza potermi lavare e Maria non mi ha neppure salutato, ma al momento giusto mi sono pure accorto che lei mi aveva svuotato il portafogli: che figura!
Mentre in macchina raggiungevo l’ufficio auspicando una giornata parabolica, il posto di blocco. Al posto giusto. Innocentemente mi sono espresso con l’agente, mentre quegli mi radiografava patente e libretto: «Speriamo tutto a posto – gli ho fatto ironico – perché se mi trova in difetto manco la multa posso pagare. Mia moglie m’ha lasciato senza una lira, pensi un po’, solo per avere detto una parola, stamattina…»
«Che parola, prego?» gravemente fa il tutore.
«Pannone. Si rende conto? Solo per avere detto pannone…»
«Scenda subito dalla macchina! Le mani bene in vista, si sdrai qua davanti! Qua, mascalzone, qua!»
Mi hanno arrestato e sbattuto in una cella. Appena ho ridetto pannone, il mio avvocato m’ha chiuso il telefono in faccia. Tuu... tuu... Digiuno, all’ora di pranzo mi sono affacciato e c’era un cane per strada: fischio, faccio cose, abbaio: niente. Gli grido «pannone!» e quello scappa per ficcarsi sotto un camion e finisce in una pappa. Nel pomeriggio lo rifaccio a un altro cane che sta annusando lo scempio ancora fresco e quello, abbaiando come un pazzo, non s’ammazza come il primo?
Ma che cos’ha – mentre penso – questa parola di così tanto sbagliato, oltre le sbarre, in fondo al corridoio, per un istante vedo mio padre e mia madre già vecchi a denti stretti consolarsi piangendo.
«Ho detto solo una parola – grido – pannone! Che sarà mai? Papà, mamma, che ho fatto di male?» e lei singhiozzando, lui rinnegando, spariscono loro.
Dopo trentasette anni di galera, condannato e ricondannato che ormai sono, da giudici e piemme offesi da quale abominevole suono, io che non so quando e se mai ne verrò fuori, so però che quella parola mi è costata tanto. Ho perso il padre, la madre, un bell’impiego, è fuggita la donna e andata è la vita, ho visto cento e più cani darsi ai copertoni pesanti e mescolarsi con l’asfalto. Gli innumerevoli scarafaggi con cui ho diviso la cella in tutti questi anni mi hanno supplicato di essere schiacciati dopo aver sentito la terribile parola. Antennine e zampette ancora vibranti, facevano sì, dicevano che era meglio così, meglio morire sotto alla suola che sentire un’altra volta la parola.
Ora sono vecchio e l’immunologo del carcere non è ottimista. Niente mi resta, all’infuori della mia parola, la parola rimastami fedele nel tempo e io alla parola, con tutto me stesso, con la completezza del mio repertorio partigiano, del mio vocabolario. Con tutta la memoria che ho dei cani morti e dei genitori andati, come la mia vecchia moglie che altrove, muta ormai, o chissà.
Con un poco di pietà, cui malgrado tutto non fatico a credere, il dottore mi ha consigliato di ritrattare domani all’ultimo appello, di sostenere che mi sono confuso e che invece un’altra è la parola, magari una che assomiglia a quella. Potrebbe essere pallone, sì, così potrei dire, e sarei libero di nuovo.
Ma domani, al cospetto della Corte, io ripeterò pannone, e allora sì che sarà libertà... Libertà!